In questi giorni di commemorazione per i dieci anni della morte di Fabrizio De André, siamo in tanti ad aver avuto modo di (ri)scoprire l’opera del cantautore genovese. Sono emerse più di una volta le occasioni di confrontarsi, magari con chi aveva già un po’ di dimestichezza, su qualche piccola discussione circa particolari canzoni, e loro riarrangiamenti da parte di altri cantanti/gruppi. Intendiamoci, niente di troppo trascendente.
Accadde così che tornando dalla mensa portai la mia opinione sulla canzone Il pescatore, presente per la prima volta nel 45 giri uscito nel 1970 Il Pescatore/Marcia nuziale. Ciò che ne penso è che alla prima versione studio di questo disco (quella in cui de André fischietta il ritornello) preferisco decisamente quella della storica tournée con la PFM (1979), che a mio modo di vedere rispecchia molto meglio il messaggio di vita e di speranza che la canzone mi trasmette.
“La prima versione è troppo sottotono”, dissi più o meno.
“Ma il pescatore è una canzone triste”, mi rispose Marina G. con la sua voce flautata. “Come sarebbe a dire triste?”, replicai impettito. Venni così brutalmente a conoscenza del fatto che la schiacciante maggioranza delle persone che mi circondavano in quel momento, avrebbero giurato sulla loro madre che nella canzone il pescatore viene ucciso dall’assassino.
La cosa mi colpì, perché mi piace sempre di tenere conto delle diverse possibilità d’interpretazione dei film o delle canzoni, e questa del pescatore che muore non mi era mai passata per l’anticamera del cervello.
Risi di loro, ma in maniera nervosa, come ridono i chihuahua davanti ai genitali di un alano (cit.).
Qualcuno era sul punto di fregarmi; decisi presto di passare alle contromisure. Veloce come il pensiero, corsi ai PC dell’aula informatica del piano terra, dove al termine di oltre dodici minuti e mezzo di caricamento della pagina di Google, recuperai il testo della canzone.
Lo riporto di seguito.
All'ombra dell'ultimo sole
s'era assopito un pescatore
e aveva un solco lungo il viso
come una specie di sorriso.
Venne alla spiaggia un assassino
due occhi grandi da bambino
due occhi enormi di paura
eran gli specchi di un'avventura.
E chiese al vecchio dammi il pane
ho poco tempo e troppa fame
e chiese al vecchio dammi il vino
ho sete e sono un assassino.
Gli occhi dischiuse il vecchio al giorno
non si guardò neppure intorno
ma versò il vino e spezzò il pane
per chi diceva ho sete e ho fame.
E fu il calore di un momento
poi via di nuovo verso il vento
davanti agli occhi ancora il sole
dietro alle spalle un pescatore.
Dietro alle spalle un pescatore
e la memoria è già dolore
è già il rimpianto di un aprile
giocato all'ombra di un cortile.
Vennero in sella due gendarmi
vennero in sella con le armi
chiesero al vecchio se lì vicino
fosse passato un assassino.
Ma all'ombra dell'ultimo sole
s'era assopito il pescatore
e aveva un solco lungo il viso
come una specie di sorriso
e aveva un solco lungo il viso
come una specie di sorriso.
La lettura collettiva mi sollevò, e ha rinforzato la mia interpretazione (ben poco originale) del testo; a mio modo di vedere, basta la semplicità del testo stesso per mettere in difficoltà un eventuale “avversario”, fautore della tesi omicida.
Notiamo immediatamente che nulla si dice circa una persona che muore. Siamo bambini grandi e abbiamo tutti gli occhi per leggere, quindi vi risparmio la parafrasi pedante del testo.
Per spiegare come la penso, preferisco prenderla un po’ alla lontana. Ciò che per me è più o meno evidente, sono i riferimenti alla simbologia cristiana: Il pescatore altri non è se non un ideale discepolo odierno di Gesù Cristo. L’importanza della figura del pescatore nel Nuovo Testamento è fuori discussione. Essa ricorre in passi significativi:
• Mentre camminava lungo il mare della Galilea, Gesù vide due fratelli, Simone detto Pietro, e Andrea suo fratello, i quali gettavano la rete in mare, perché erano pescatori. E disse loro: «Venite dietro a me e vi farò pescatori di uomini». (Mat 4:18-19, identico in Mar 1:16-17);
• La parabola della rete (Mat 14:47-51);
• La pesca miracolosa (Lu 5:1-11).
Allargandoci alla simbologia dei primi cristiani, com’è noto il pesce veniva utilizzato dalle prime comunità per indicare la propria religione (http://it.wikipedia.org/wiki/Cristianesimo#Il_simbolo_del_pesce).
Colpisce poi il riferimento diretto all’eucaristia nel condividere il vino e il pane, rafforzato dal contesto proverbiale del dar da bere agli assetati (vi risparmio i riferimenti nelle Scritture, perché si sprecano; se non siete allergici potete leggere questo: http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Celebrazioni/2000-2001/Dar%20da%20bere%20agli%20assetati.html). Per farla breve, nel momento in cui il vecchio pescatore non denuncia ai gendarmi che lo interrogano l’omicida con gli “occhi da bambino”, la canzone diventa una bellissima storia di perdono, che si rifà senza tanti giri di parole al messaggio evangelico.
Dato che niente di davvero esplicito sembra descrivere l’omicidio, i sostenitori della tesi sanguinaria si trovano costretti a concentrare il loro fuoco facendo leva sul certo misterioso e, per loro, ambiguo “solco”, che tutti ricordiamo e che disegna quella “specie di sorriso” sul volto del pescatore. Il solco rappresenterebbe la gola del pescatore (ma siamo sicuri che la gola giaccia sul “viso”?), il quale a questo punto sarebbe stato sgozzato senza pietà e senza motivo evidente da un assassino, il quale, lo ricordo, viene descritto da de André come avente a malapena il tempo di dissetarsi e mettere a tacere i morsi della fame, per di più con le forze dell’ordine alle calcagna.
Sorvolando sul fatto che il solco del pescatore viene descritto, immutato, tanto all’inizio quanto alla fine, ci si può anche chiedere in virtù di quale logica i gendarmi (gli stessi, mi piace pensare, anche se non c’entra, che porteranno via Bocca di Rosa “con i pennacchi e con le armi”) si possano rivolgere candidamente ad un uomo sgozzato, e di conseguenza ricoperto di sangue, chiedendogli informazioni circa un fuggitivo.
Insomma, a mio parere bastano poche considerazioni per salvare il povero pescatore da una fine tanto tremenda. Si potrebbe introdurre poi un discorso più ampio, coinvolgendo ragionamenti sulla forte coerenza interna della poetica di de André, quella che mette in primo piano i derelitti, i peccatori, le minoranze abbandonate a se stesse, gli emarginati del mondo. E’ un tema fortissimo che si può rintracciare in buona parte della sua discografia, e che trova la massima espressione nell’album Fabrizio de André (detto L’indiano), ma soprattutto nel suo album capolavoro Anime salve. De André non ha che uno scopo: vuole valorizzare gli ultimi (perfino i banditi dell’anonima sequestri sarda che lo rapirono insieme a Dori Ghezzi nel 1979). Che senso ha allora associare ad un assassino disperato “occhi enormi di paura”, che finiscono per rimpiangere l’infanzia (la memoria è già dolore e sgg., ovvero segno di pentimento), se poi gli si attribuisce la morte di un vecchio inerme?
Mi si dirà, ora basta, le opinioni sono opinioni. Ma prima che ciascuno si forgi una volta per tutte il proprio punto di vista, volete sapere cosa ne pensava l’unico che in tutta questa storia ha davvero voce in capitolo? Mi viene incontro la raccolta dei testi “Come un’anomalia”, pubblicata da Einaudi, che si è presa la briga di associare ad ogni canzone un commento di Faber, tratte dalle interviste rilasciate a quotidiani o riviste, da un paio di libri (citati) e dai commenti di De André durante l’ultimo concerto (1999).
«Genova è anche gli amici vivi che da lontano ti vedono crescere e invecchiare, per esempio i pescuèi che, proprio come ne Il pescatore, hanno la faccia solcata da rughe che sembrano sorrisi e, qualsiasi cosa tu gli confidi, l'hanno già saputa dal mare.»
E credo che queste parole possano chiudere la mia piccola riflessione.
Flo
Il santo sotto il portico
13 ore fa
1 commento:
Il tema dell'omertà caritatevole e del perdono sono ricorrenti in De Andrè, e proprio il perdono è forse il tema più frequente nei suoi testi, dopo quello della libertà e, ovviamente, dell'amore.
Non dire falsa testimonianza
e aiutali a uccidere un uomo.
Lo sanno a memoria il diritto divino
e scordano sempre il perdono.
Ho spergiurato su Dio e sul mio onore
e no, non ne provo dolore.
Ho spergiurato su Dio e sul mio onore
e no, non ne provo dolore.
Io cito solo "Il testamento di Tito" ma gli esempi si sprecano.
Colgo l'occasione, in questo periodo di violenza in Medio Oriente, per consigliare a tutti l'ascolto e la lettura tradotta di "Sidùn", testo che Faber dedicò al massacro compiuto dall'esercito israeliano nella città di Sidone, durante la prima guerra del Libano.
Su YouTube trovate tutto, compresa l'intervista a De Andrè.
Posta un commento